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La testimonianza di Beatrice a ‘Racconti di vita e sport’

Ciò che mi spinge a parlare di questa tematica è il fatto di essere cosciente di poter parlare non solo per me, ma anche per tante altre persone che questo tipo di dolore e di sofferenza lo percepiscono e lo comprendono. Credo fermamente che alla base ci sia un problema sociale non indifferente, perché troppe volte si sente parlare di violenza unicamente sotto l’aspetto fisico e che il resto o assume forme di poco spessore o nemmeno esiste nella concezione della molteplicità della gente. In realtà nessun genere di violenza deve essere sottovalutato o sminuito, perché solo per il fatto di poter essere chiamata tale dovrebbe creare nell’animo e nella moralità dell’essere umano una rivalsa del senso di giustizia. Dico questo perché ciò che ho subito io non rappresenta un evento singolare a sé stante ma, al contrario, tocca un numero elevatissimo di individui la cui sofferenza e il cui disagio devono rappresentare una battaglia comune di tutti. Questo problema riguarda più persone di quanto si creda e di quanto ci si possa immaginare.

Non ho mai denunciato, era troppo difficile per me in quel momento, ma ora che sono passati quasi cinque anni ho sentito il bisogno di parlare e liberarmi da un peso che mi porto sulle spalle come un macigno, come se fosse la mia condanna. Ma ho capito che non lo è, che non è una colpa riconducibile alla mia persona e che devo essere io la prima a viverla in questo modo. Innanzitutto vorrei cominciare dando una definizione di danno non patrimoniale. Questo concetto, in passato, riguardava quasi in via esclusiva i danni derivanti da reato, ma negli ultimi decenni è stato riconosciuta dalla giurisprudenza l’esistenza di danni non patrimoniali anche in assenza di reato, ed essi sono in particolare collegati alla lesione di valori costituzionalmente garantiti (come ad esempio i diritti inviolabili all’integrità fisica, alla dignità personale, alla salute ecc…). Per tanto tempo mi sono colpevolizzata convincendomi del fatto che fosse tutto nella mia testa, ma ad oggi sono pienamente consapevole che non fu così, perché ciò che ho vissuto è reale e si configura proprio in questo.

Il danno che ho subito assume diverse sfumature, innanzitutto si tratta di un danno biologico ed esistenziale, i quali si affiancano l’uno all’altro. Il danno alla salute (o biologico) è la compromissione temporanea o permanente dell’integrità fisica o psichica e l’art 32 Cost. tutela la salute come “fondamentale diritto dell’individuo”. Va risarcito in sé e per sé come lesione dell’integrità fisica. Il danno esistenziale, invece, costituisce la lesione di interessi e valori della persona di rilevanza costituzionale diversi dal diritto alla salute. Esso induce ad un’alterazione della vita quotidiana, in quanto modifica in senso peggiorativo il modo di rapportarsi con gli altri (sia all’interno che all’esterno del contesto familiare). Queste nozioni teoriche e tecniche le applicherò alla mia storia, cercando di spiegare nel migliore dei modi cosa questo comporta nella praticità della vita quotidiana di una vittima di abusi, nel mio caso, psicologici.

Quando avevo 15 anni praticavo danza a livello agonistico, mi allenavo per quattro o più ore al giorno e tutto ciò che volevo era essere brava, volevo che i miei sforzi venissero riconosciuti perché desideravo più di qualsiasi altra cosa fare di quella disciplina il mio futuro. Così non è stato e non per volere mio, ma per le azioni e le parole messe in atto da quelle che sarebbero dovute essere non solo le mie istruttrici, ma anche i miei punti di riferimento e che avrebbero dovuto accompagnarmi durante quel percorso. Frasi come “Devi dimagrire”, “La tua forma fisica non va bene”, “Non puoi esibirti con le altre, sei grassa”, “Il body bianco non possiamo prendertelo, perché mette troppo in risalto le tue forme”, “Hai mangiato una fetta di pizza? Si vede”, “Hai mangiato solo un yogurt? Brava” erano all’ordine del giorno. Ho perso il conto di quante volte ci denigrarono davanti alle altre classi, ed il motivo era pressoché lo stesso, ovvero la forma fisica a detta loro inadatta. Era diventata la più grande ossessione di tutte noi, non facevamo altro che guardarci costantemente allo specchio cercando di coprire le parti del nostro corpo che eravamo arrivate a detestare.

Successivamente, una volta terminata la lezione, eravamo solite chiuderci nello spogliatoio e non solo per cambiarci, ma per piangere. Ogni volta si trattava di un pianto doloroso che non aveva mai una fine. Ci asciugavamo le lacrime per uscire a testa alta da quella porta, perché nessuno doveva sapere, nessuno si doveva accorgere della debolezza umana, perché noi non ce lo potevamo permettere. Era come se dovessimo essere della macchine, mostrarsi fragili sarebbe potuta essere una grande fregatura e di conseguenza ogni giorno era una lotta costante per poter emergere. In ambiti come quelli la sconfitta di una compagna diventava la tua vittoria ed era ciò che ognuna di noi voleva. Era una guerra che non si limitò solamente alla tecnica, ma anche al fisico. Diventare più magra delle mie compagne era uno dei miei obiettivi più grandi. Per cui il mio pranzo era diventato uno yogurt rigorosamente magro assieme ad una barretta proteica, mentre la cena la saltavo quasi sempre. Non mi dimenticherò mai di quando ci misero uno scotch di carta attorno alla vita, alle cosce e alle braccia scrivendoci sopra con un pennarello le circonferenze in centimetri di ognuna di noi. In questo modo ci misero a paragone l’una con l’altra, costrette a fissarci allo specchio e tutto ciò che percepivo era di essere, in qualche modo, sbagliata. Non facevo altro che domandarmi perché io avessi due o tre centimetri in più, senza rendermi conto che in un batter d’occhio avevo ridotto la mia persona ad una misura e una bilancia. Volevano che perdessi sempre peso e così fu, persi 8 chili in 3 mesi e loro ebbero la meglio. Avevo 15 anni, non arrivavo a 160 cm di altezza e pesavo a malapena 45 chili.

Da quel momento è stata una discesa senza freni, perché l’idea di dimagrire a vista d’occhio mi rendeva quasi orgogliosa, come se fosse una specie di vittoria. Solo dopo parecchi mesi le persone che mi circondavano mi fecero notare che c’era qualcosa che non stava funzionando a dovere, ma ovviamente io negavo ogni volta. Sviavo il discorso, perché nonostante la continua perdita di peso mi facesse tirare un sospiro di sollievo, mi spaventava trovarmi faccia a faccia con la realtà. Razionalmente, in piccoli e rari momenti di lucidità mi rendevo conto di quanto fosse rischioso ma non mi importava affatto. Volevo solo essere perfetta. Fu l’inizio del mio inferno, un girone dal quale sembravo non uscire mai perché non appena avevo anche solo l’impressione di risalire a galla, qualcosa mi trascinava a fondo di nuovo ed era un circolo continuo che non aveva fine. Quell’inferno non si fermò, perché il mio corpo non andava comunque mai bene. Mangiavo sempre meno, ero sempre più magra ma a nessuno importava.

All’età di 17 anni, nonostante io e la mia famiglia avessimo preso la decisione di allontanarmi da quell’ambiente e nonostante cambiai totalmente vita, tutto iniziò lo stesso a peggiorare ed ebbi la mia fatidica diagnosi. Da quel momento in poi mi aspettarono 3 anni continui di terapia e psicoterapia con assunzione di farmaci per anoressia (a tratti restrittiva caratterizzata da periodi di digiuno che potevano durare anche giorni, e a tratti con sintomi bulimici caratterizzati invece da abbuffate frequenti e successivi intensi allenamenti), depressione, disturbo dell’ansia e disturbo borderline della personalità. Il mio corpo era malato, ma ancor prima lo era la mia mente. Anche se piano piano iniziai a riprendere peso, questo non comportò nell’immediato anche il miglioramento della mia salute mentale, perché ho passato anni della mia adolescenza dove rapportarmi con le persone era diventata una delle sfide più impegnative mai affrontate. Ero perennemente chiusa in me stessa, nella mia sofferenza che nessuno capiva, percepivo dentro di me un vuoto enorme che non riuscivo a colmare. Ho trascorso periodi in cui il mio rendimento scolastico era bassissimo perché il mio unico pensiero erano le calorie che avrei assunto durante la giornata, e quando queste erano “troppe” io mi dovevo punire. Nella mia testa non potevo permettermi di sforare, altrimenti avrei dovuto digiunare durante il pasto successivo oppure avrei dovuto allenarmi fino allo sfinimento per bruciarle. Non ero più una persona, bensì un semplice e stupido numero su quella bilancia che tanto ho odiato.

Ero arrivata a contare ogni pezzo di cibo che avevo nel piatto, mi pesavo fino a 7 volte al giorno, conoscevo le calorie di ogni alimento a memoria, mi scocciavo le cosce per sembrare più magra e mi misuravo la circonferenza dei polsi e della vita di continuo. Poi toccai il fondo il 6 gennaio 2022, giorno in cui decisi di voler scomparire perché il mostro dentro di me stava vincendo e io non avevo più nessuna ragione per andare avanti a combattere. Mi chiesi che senso avesse non arrendersi, ormai avevo perso me stessa, non avevo nient’altro da perdere. Ricordo benissimo quel momento, andai davanti allo scaffale dove in casa teniamo i farmaci e tutto ciò che volevo era assumerne più che potessi perché ero diventata tutto ciò che mai avrei voluto. Però iniziai a provare paura e domandai a me stessa se non lo stessi facendo per me o per la mia famiglia, se avessi paura di ciò a cui io stavo andando incontro o se invece avessi paura del dolore che avrei provocato. La risposta alla mia domanda la trovai guardando negli occhi mia madre, mio padre, i miei nonni, il mio cane e il mio gatto. Loro non lo sanno, ma sono stati la mia salvezza più grande nel peggiore momento della mia vita. L’essermi arresa di fronte a quel pensiero invasivo ha contribuito a rendere quel giorno per certi versi indimenticabile, perché da quel dolore devastante sono nata di nuovo.

Ricominciai ad avere voglia di vivere per davvero, perché fino a quel momento non era più vivere ma sopravvivere. Ora sto bene, mi sono lasciata aiutare e sto finalmente vivendo la mia vita da 20enne. Ma comunque sia, gli anni passati tra le cliniche, gli ospedali e la neuropsichiatria non me li ridarà più nessuno. Le esperienze delle quali mi sono privata non potrò mai riviverle tornando alla spensieratezza che mi spettava e che invece mi è stata ingiustamente strappata via. Le amicizie che ho perso e la mia assenza emotiva e psicologica in famiglia non torneranno indietro. Questo è ciò che si intende per danno esistenziale e alla salute. Ora sto bene, ma quando guardo i tatuaggi e le cicatrici che porto non posso non pensare a quanto ho dovuto affrontare. Quando riguardo le mie foto di quel periodo, vedo una persona completamente assente, in lotta con sé stessa e automaticamente il mio pensiero è rivolto a quella ragazzina che aveva solo 15 anni e tutto ciò che voleva era essere felice e spensierata come i propri compagni.

Se mi dovessero chiedere perché ho deciso di parlare così apertamente dopo tutto questo tempo, direi che lo sto facendo per tre motivi fondamentali. Innanzitutto è per la piccola me, che è dovuta crescere prima del previsto lottando ogni giorno, ed è ora che io la valorizzi per ciò che è sempre stata, ovvero una persona e non un numero. Il secondo motivo riguarda il fatto di essermi resa conto di quanto io, nonostante tutto, sia stata fortunata nell’avere una famiglia sempre presente che mi ha fornito tutti i mezzi necessari per poterne uscire. E so che parlarne, in qualche modo, potrebbe far sentire non solo al sicuro, ma anche ascoltate molte persone che non hanno o non hanno avuto la mia stessa fortuna. E il terzo motivo invece, è come se fosse una sorta di desiderio, perché avrei tanto voluto che qualcuno mi avesse messa al corrente di quanto fosse pericoloso mettere in atto determinati comportamenti, avrei voluto che qualcuno avesse valorizzato l’importanza di preservare la propria salute mentale e avrei voluto che mi facessero notare che non c’era assolutamente niente di normale in ciò che stavo subendo. Avrei voluto che qualcuno avesse chiamato quelle parole e quei gesti con il proprio nome, ovvero “violenza”.

Sono qui per dire che denunciare non è l’unica via d’uscita, perché so bene quanto questo possa essere difficile ed estenuante in un momento già di per sé delicato. Ciò che invece posso incitarvi a fare, se rivedete voi stessi o persone a voi vicine nelle nostre testimonianze, è parlare. Fatelo con le persone di cui vi fidate, con la famiglia, con chi è specializzato in questo perché troppe volte si pensa di poter affrontare tutto da soli, ma purtroppo non è così. Accettate l’aiuto che vi viene dato, che sia una seduta dalla psicologa o una spalla su cui piangere non voltatevi dall’altra parte. Nessuno è mai completamente solo, anche se è ciò che la vostra mente cerca di farvi credere non significa che questo rispecchi la realtà. C’è sempre un modo per tornare a respirare, e sarà il momento più bello nonostante tutto.

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